di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Emanuela Villagrossi
e la collaborazione di Dany Greggio
illustrazioni Filippo Letizi
visual compositing p-bart.com
direzione tecnica Giorgio Ritucci
fonica Roberto Pozzi
con il supporto tecnico-creativo dell’Istituto Europeo di Design di Milano
Ied Moda Lab, Ied Arti Visive
e il sostegno di Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
Rumore rosa trae ispirazione dall’opera di Rainer Werner Fassbinder. Accanto a Le lacrime amare di Petra von Kant - cui le tre protagoniste dello spettacolo rimandano - si apre una finestra sul mélo di Douglas Sirk, che il regista tedesco amava a tal punto da precipitare i suoi drammi dai salotti perfetti dei family drama, alla realtà blasfema dei diseredati e dei diversi… L’amore e l’inganno, le scelte affettive sbagliate, l’usura dei sentimenti con il tempo, la paura dell’abbandono di eroi - quasi sempre donne, emarginati o omosessuali - sono dunque i territori su cui continuiamo il nostro viaggio fra i Piccoli episodi di fascismo quotidiano.
Fassbinder osserva uomini e cose agendo per estremizzazioni e polarizzazioni: gli amori sono eccessivi e disperati, l’intolleranza è quella più cieca e feroce, «che c’entra la felicità, qui stiamo parlando di rispettabilità» (si dice ne La paura mangia l’anima)…contemporaneamente è sempre attento a non idealizzare: tutte le sue vittime possono trasformarsi, e spesso lo fanno, in carnefici altrettanto ciechi e irrigiditi.
Simula l’ordine della vita con l’Imitation of life della zona franca della realtà e dell’ottusità quotidiana, per legittimare le ambivalenze e le ambiguità che differenziano l’amore maschile da quello femminile (il primo quasi sempre permeato di non-scelte, il secondo di abbandoni totali). A questo materiale bollente e sanguinante RWF aggiunge il moltiplicarsi delle discrasie fra poteri pubblici e privati, lo scontro tra individuo e storia, fra libertà e desiderio di possedere le cose e gli altri: questioni sulle quali anche Pasolini – e noi con lui – ha costantemente insistito.
Mentre in Pre paradise sorry now (testo da cui è tratto il nostro spettacolo Piccoli Episodi di Fascismo Quotidiano) gli scenari della quotidianità emergono dalle macerie e dai crolli della seconda guerra mondiale, in Rumore Rosa il tempo è quello attuale, dove il patetico del melodramma non è più oggetto di un’immedesimazione passiva, ma luogo di intensi sentimenti di comprensione. Ne I film liberano la testa RWF sostiene che per sottrarsi alle fatali e mortifere leggi della consuetudine dello sguardo occorra collocarsi a una certa distanza dall’evento, per meglio metterlo a fuoco e questo “distanziamento”, questo raffreddamento della percezione, va ben oltre il principio dello “straniamento” teorizzato da Bertolt Brecht: «In Brecht vedete delle emozioni e ci riflettete sopra mentre le osservate, ma non le provate mai davvero, io faccio in modo che il pubblico senta e pensi».
Nella frase «io faccio in modo che il pubblico senta e pensi» sentiamo corrispondere l’essenza di ciò che ha sempre tentato di fare con il nostro teatro di dubbi e capovolgimenti. Come in questo caso.
Volevamo mettere in scena un mélo fassbinderiano, fare quasi un remake delle Lacrime Amare, ma non siamo mai stati interessati alle celebrazioni, preferiamo i tradimenti, i ribaltamenti di campo. Da qui la decisione di collocarci alla fine della time-line, alla fine delle Lacrime amare, alla fine di Fassbinder, del suo stesso melodramma esistenziale e di quello delle sue magnifiche attrici, dopo, post, per rappresentare non più il “drama” ma l’artificio che gli consente di esistere.
Il soggetto è esploso, rinfranto come su un parabrezza spaccato. Alcuni dialoghi-chiave sono stati registrati su vinile come traccia-memoria di un testo che non c'è più, che sopravvive solo nei ricordi di Marlene, la segretaria-serva, muta scrutatrice dei fatti: parole che ancora evocano attese-disattese.
Rimangono un disco che gira su se stesso, un telefono che suona a vuoto, un ventilatore acceso e rumore di passi. Rimangono tre corpi, tre interpreti, tre età della vita. Rimangono dei gemiti di solitudine che si dilatano in uno spazio bianco dove è di casa un amore più freddo della morte. Il bianco del plexiglas compie una sorta di effetto “ibernante” sulle tre figure, non più personaggi ma simulazioni di essi, che non hanno sentimenti, pur dichiarando continuamente di averne. La loro riduzione a icone-fumetto è accentuata dal dispositivo scenico: alle loro spalle scorrono scenari disegnati da un illustratore, unico elemento di continuità nella frammentazione dei sentimenti. Le zoomate, i passaggi di campo fra interni rassicuranti o oppressivi ed esterni cittadini, freddi e deserti, fanno il montaggio di tre schegge di vita parallele.
Ma alla costruzione del plot mancano alcuni pezzi, lo story-board va in parte ancora disegnato o forse è lo spettatore stesso a dover completare di senso le curve mutile della simulazione?
Un incidente d’auto diventa unico fulcro drammaturgico, il solo elemento di collisione e confluenza delle tre storie. Un incidente-tentato omicidio che torna come loop, che ruota su disco, che è ossessivamente costruito e decostruito, che esprime la frattura insanabile fra l’immaginazione melodrammatica delle origini e la crisi dei sentimenti e degli stereotipi della messa in scena.
Una cesura che Motus porta impressa come un tatuaggio indelebile.