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domenica 20 ottobre / ore 19.00

Spazio ex Vivalat - Viale del Basento


in ricordo di Paolo ROSA, Studio Azzurro

Installazione di Silvio GIORDANOOSAWOP

con ABITO IN SCENA, Antonio INFANTINO & band, Pino QUARTANAVito VIGLIOGLIA,

DJ ZWALA / CYCLE PART ONE / un fuoco sonoro in eterno divenire

 

 

Si narra che esisteva tanto tempo fa - fino agli inizi del '900 - nella città di Potenza una festa.

Era la festa degli "alberi in fuoco". La festa delle "iaccare" e dei "fanoi". Oggi, di quell'antica festa e di quell'antica tradizione non è rimasto neppure il ricordo. Tutto è stato avvolto e dissolto dall'oblio ("...non recidere forbice quel volto"... sono gli stupendi versi di Montale sul modo in cui la nostra memoria lavora). E la stessa comunità si trova orfana del suo momento festivo – un momento capace di innovare continuamente i valori di una comunità piuttosto che attardarsi nel recupero di nostalgiche identità perdute!!!

 

Scrive Massimo Cacciari:

Tutte le feste sono Momenti sublimi, poiché Momenti destinati a non disperdersi, sottratti all'oblio, Momenti che, misteriosamente, stanno. (...). Questo Momento rinnova, ri-crea; o, meglio, chiama a raccolta ogni energia per risospingere al culmine del cielo il carro dell'Astro. Esso (qui Cacciari fa riferimento al Carnevale come l'autentica Festa del Momento) appare come la Festa del gioco per eccellenza, appunto perché il Gioco ri-crea. Esso discioglie ogni fissazione terranea, reintegra gli elementi prima isolati

 

Di quella antica tradizione, legata agli alberi e al fuoco, ne dà una straordinaria descrizione (quasi fenomenologica) il più grande storico potentino – Raffaele Riviello – all'interno del suo testo "Costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino":

 

Nella vigilia, in sull'ora del vespero, si portavano in città, a suono di pifferi, di tamburi, o di bande, le iaccare (fiaccate), cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa.

Il trasporto di una iaccara formava una vera scena di brio e di festa per plebe o per monelli.

Molte coppie di contadini giovani e robusti la portano sulle spalle. Sopra vi sta uno, vestito a foggia di buffo o di pagliaccio, che tenendosi diritto ad un reticolato, o disegno di cannucce, su cui è posta tra foglie e fiori la fiura, o imagine di S. Gerardo, grida, declama, gesticola e dice a sproposito, eccitando la gente a guardare e ridere, per accrescere l'allegrezza della festa. E la gente si affolla per vedere, fa largo, e ride tutta contenta.

Di tanto in tanto i portatori si danno la voce per regolare le forze e i passi, si fermano per ripigliare un po' di lena ed asciugarsi il sudore con una tracannata di vino; giacché vi è sempre chi li accompagna col fiasco e li aiuta a bere, senza farli muovere di posto.

Come si giunge al luogo, ove è il fosso per situare la iaccara, la scena muta per folla di curiosi, rozzo apparato di meccanica e timore di disgrazia. Si attaccano funi, si preparano scale ed altri puntelli; ed al comando, chi si affatica di braccia e di schiena, chi adatta scale e grossi pali per leva e sostegno, e chi da finestre e da balconi tira o tien fermo le funi. E ad ogni comando si raddoppiano gli sforzi, si fa sosta e silenzio, secondo che nell'alzarsi lentamente la iaccara, il lavoro procede con accordo di forze, o presenta difficoltà e pericolo.

Appena si vede alzata, prorompe un grido di gioia ; tamburi e bande suonano a frastuono, e la gente con viva compiacenza guarda di quanto la iaccara supera in altezza le case vicine.

Le iaccare si innalzavano nei luoghi più larghi; in Piazza, innanzi alla Chiesa di S. Gerardo, avanti a lu Palazz' di lu Marchese, (oggi Liceo), a Portasalza, di fronte a lu castiedd (Ospedale S. Carlo).

Per accenderle, la vigilia a sera, bisognava arrampicarsi sino alla cima, e non senza fatica.

Queste grandi fiaccole erano i fari fiammeggianti della festa per farli vedere da lontano. Ardevano tutta la notte, e illuminavano a giorno tutto il vicinato, la cui gente godeva e si divertiva a quella vista.

Anzi nella vigilia a sera, appena cominciava a farsi scuro, in ogni cuntana, o vico, in ogni larghetto, e lungo tutta la Pretoria si accendevano centinaia e centinaia di fanoi (falò), cioè ammassi di sarmenti, cannucce, scroppi, e ginestre secche e verdi, in guisa che tutta la città pareva andasse in fumo e fiamme, costituendo ciò la caratteristica e tradizionale illuminazione di quella festa.

Per la strada in quella sera, tra il fumo denso ed amaro e tanti fuochi crepitanti, bisognava procedere a salti ed a tentoni, e sentivasi venir meno il respiro.

 

Che cosa a noi interessa recuperare e far ri-vivere nuovamente – nello spirito della contemporaneità – di quella festa e di quella antica tradizione?

Innanzitutto, il senso stesso della festa comunitaria. Ci troviamo sempre più in presenza di grandi processi che tendono a s-radicare l'individuo dal suo ethos, dal suo luogo. Processi che innescano nostalgie e ritorni a dimensioni non più riproponibili. Eppure, c'è un grande bisogno di ritrovare l'Heimat, la casa, il senso della relazione dentro la comunità. La festa da sempre ha rappresentato questo forte bisogno. Il senso della relazione dentro la comunità. "La relazione è l'identità della comunità" ci ripete Aldo Bonomi. Non si dà più ricerca di un'essenza stabile, immutabile, fissa che rappresenterebbe ciò che noi siamo. Al contrario, il senso ed il significato della vita di ciascuno è in un rapporto stretto con gli altri, nella continua esposizione all'altro (Hanna Arendt). E' questa la dimensione essenziale dell'umano.

In pagine di rara bellezza, Massimo Cacciari ha descritto, nel suo saggio "Della cosa ultima", come l'identità di ciascuno è nel suo specchiarsi nella kore/pupilla dell'altro. E' l'altro che ri-flette ciò che in verità io sono. Ora, la festa ha da sempre rappresentato questo forte desiderio. Che è un desiderio di relazione e di riconoscimento, innanzitutto; e di trasformazione delle stesse relazioni, immediatamente dopo. È il momento capace di ri-creare e reintegrare gli elementi prima isolati.

Questo è ciò che emerge anche dai lavori di grandi pensatori come Frazer, Eliade, Rang – la festa è il momento in cui la comunità sospende per un attimo il tempo ordinario e cronologico del quotidiano e ripensa se stessa, proiettandosi in un tempo nuovo, innovativo in cui le stesse relazioni tra i soggetti della città possono acquistare nuovi e inediti significati.

E l'albero ed il fuoco hanno - da sempre - questo significato fortemente simbolico. E, qui, simbolico chiama alla presenza un'esperienza del reale in cui i valori ed il significato delle esistenze possono – attraverso altre modalità, non immediatamente riconducibili alla razionalità strumentale - acquisire senso mediante un diverso registro: quello fondato sulla relazione ed i valori, e quello fondato sui linguaggi dell'arte e della filosofia...

Fanoi. La festa degli alberi in fuoco non fa altro che assumere il simbolico come l'elemento in grado di tenere insieme tre fondamentali processi, che sono aspetti differenti e intrecciati, di un'unica esperienza:

"a) la destorificazione, cioè il trasferimento al di fuori delle originali coordinate spazio-temporali di un elemento del mondo - una scheggia, si potrebbe dire, per sottolinearne l'insignificanza nel suo valore d'uso;

b) la trasfigurazione simbolica (cioè il conferimento a questo elemento destorificato di un significato mitico esemplare, che trascende e talvolta contraddice il suo eventuale valore d'uso);

c) l'identificazione del soggetto con quell'immagine mitica (cioè la ridefinizione della propria identità in funzione del simbolo)".

Quindi, si può affermare che il simbolico si pone fuori da qualsiasi considerazione legata alla strumentalità e all'utilità. Piuttosto, è il farsi soggetto di una comunità che chiama in causa forme di partecipazione empatica con coloro che con-dividono la stessa esperienza.

Il Progetto muove, dunque, esattamente da queste considerazioni e mette in campo una molteplicità di concetti ed esperienze da sperimentare in forme inedite: relazione, condivisione, dimensione valoriale, comunità/innovazione, simbolico, gioco/creatività...

Fanoi può diventare in questo modo un "ideogramma urbano", ovvero uno "schema o logo capace di rappresentare sinteticamente le linee-forza che materializzano le spinte evolutive espresse dalla città". Un patrimonio collettivo "un Dna urbano, ma anche un luogo concettuale, comunicativo ed emotivo condiviso e amato da tutti gli abitanti della città: lo strumento più immediato per un controllo interattivo dei suoi processi di modificazione".

Dunque, uno spazio di interazione, un luogo di incontro di soggetti e attori diversi, di forme di vita molteplici in grado di far crescere sempre di più una coscienza di città. In altri termini, un processo nel quale i differenti attori sociali, economici, culturali ed istituzionali sviluppano la capacità di fare rete, esprimono una volontà strategica in grado di produrre un progetto unitario di città, indirizzando ed orientando in questo modo i propri interventi verso mete collettive condivise.